Sabato, alla Coppa Italia in terra marchigiana, ho giocato
poche partite, ne ho arbitrate di più e ne ho guardate tante. Una mi è rimasta
addosso.
Ho conosciuto Lorenzo quando era davvero piccolo e da subito
mi colpirono i suoi occhi: scuri, grandi, come il cielo di notte. Inseguivano
il babbo come un segugio insegue la sua preda ma quando erano al sicuro, dentro
al loro perimetro, guardavano curiosi. Oltre.
Non sapeva niente di questo mondo fatto di omini
piccolissimi imprigionati su fantomatiche basi dalle qualità balistiche
fantascientifiche. Tantomeno poteva rendersi conto che sarebbe diventato uno
dei suoi mondi. Uso il plurale perché nel mio non conoscerlo posso solo
immaginare quanti mondi stia sognando e quanti ne stia vivendo. Scrivo perché ne
ho visto uno, che è anche uno dei miei mondi. Come tutti i suoi coetanei ne è
la quintessenza. Per i ragazzi a cui è stato tracciato un sentiero pulito,
onesto, è ancora un gioco e, di questo, ne fanno un punto di forza. Scevri delle
malizie tipiche degli adulti, dal concetto di vittoria a tutti i costi, segno
distintivo della frustrazione dei “grandi”, diventa una sinfonia il vederli
giocare.
Quello che mi ha colpito, che mi ha emozionato, sono stati quei due fari neri
sempre concentrati sul gioco, in perfetta sincronia con le mani e il cervello
ma che, ogni tanto, si prendevano la licenza di cercare qualcosa al di fuori
del panno verde. Cercavano un’àncora, un appiglio, o forse solo un gesto di
approvazione o di incoraggiamento. Sapevano
perfettamente quando farlo. Lo sguardo si alzava non per riempire il proprio
ego, non dopo un gesto fatto bene o un aggancio perfetto. Quello non aveva
bisogno di altro, sapevano
perfettamente di aver fatto la cosa giusta. Cercavano complicità nel
fallimento. Cercavano altri occhi che alleviassero la pesantezza dell’errore.
Un linguaggio del corpo meraviglioso, senza mai acuti di disapprovazione. Il
continuo, incessante rimboccarsi le maniche del minatore, di colui che sa che
per riparare all’errore occorre uno sforzo doppio in direzione contraria.
Questi occhi altri, non sono mai mancati. Qualsiasi potesse essere la traiettoria distorta dei corpi sapevano che avrebbero incontrato sempre e solo gli occhi di Patrizio. Occhi concreti, decisi, a contorno di un’espressione sempre sorridente, rassicurante, ancora perfetta. Gli occhi di colui che lo ha preso per la mano e che adesso sta iniziando a lasciarla. Perché prima o poi vanno lasciate quelle mani. Va permesso l’urto. Con la consapevolezza che quando sarà per terra avrà gli strumenti per rialzarsi e continuare a correre per quel sentiero pulito, onesto anche quando non andrà incontro solo al gioco.
Questi occhi altri, non sono mai mancati. Qualsiasi potesse essere la traiettoria distorta dei corpi sapevano che avrebbero incontrato sempre e solo gli occhi di Patrizio. Occhi concreti, decisi, a contorno di un’espressione sempre sorridente, rassicurante, ancora perfetta. Gli occhi di colui che lo ha preso per la mano e che adesso sta iniziando a lasciarla. Perché prima o poi vanno lasciate quelle mani. Va permesso l’urto. Con la consapevolezza che quando sarà per terra avrà gli strumenti per rialzarsi e continuare a correre per quel sentiero pulito, onesto anche quando non andrà incontro solo al gioco.
Lorenzo quella partita l’ha persa, ha abbassato lo sguardo
per raccogliere le sue miniature e, forse, per qualche secondo ha anche cercato
di capire il perché avesse perso. Un attimo, tanto così è durato, poi l’ho
visto rialzare lo sguardo e cercare, in mezzo a tantissimi occhi puntati su di
lui, gli unici ai quali voleva raccontare quel pensiero e l’ha fatto, l’ha
fatto con un abbraccio.
Grazie Lorenzo, grazie Patrizio.
1 commento:
Grazie Luca. Hai toccato il mio cuore e quello di Lorenzo. Lo abbiamo letto tutto di un fiato quasi a perdere alcune parole tanta era la voglia di andare avanti... Grazie, grazie di cuore.
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