Sabato, alla Coppa Italia in terra marchigiana, ho giocato
poche partite, ne ho arbitrate di più e ne ho guardate tante. Una mi è rimasta
addosso.
Ho conosciuto Lorenzo quando era davvero piccolo e da subito
mi colpirono i suoi occhi: scuri, grandi, come il cielo di notte. Inseguivano
il babbo come un segugio insegue la sua preda ma quando erano al sicuro, dentro
al loro perimetro, guardavano curiosi. Oltre.
Non sapeva niente di questo mondo fatto di omini
piccolissimi imprigionati su fantomatiche basi dalle qualità balistiche
fantascientifiche. Tantomeno poteva rendersi conto che sarebbe diventato uno
dei suoi mondi. Uso il plurale perché nel mio non conoscerlo posso solo
immaginare quanti mondi stia sognando e quanti ne stia vivendo. Scrivo perché ne
ho visto uno, che è anche uno dei miei mondi. Come tutti i suoi coetanei ne è
la quintessenza. Per i ragazzi a cui è stato tracciato un sentiero pulito,
onesto, è ancora un gioco e, di questo, ne fanno un punto di forza. Scevri delle
malizie tipiche degli adulti, dal concetto di vittoria a tutti i costi, segno
distintivo della frustrazione dei “grandi”, diventa una sinfonia il vederli
giocare.